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Cosa pensano veramente gli scienziati della meditazione?

 

Mi è stato segnalato recentemente un articolo pubblicato sul Scientific American in cui John Horgan, giornalista scientifico ed autore, ha riassunto tutto ciò che, da un punto di vista scientifico, “non va” con la meditazione. L’ho trovato interessante, ma ho anche trovato che si richiedevano delle precisazioni. Con questo articolo spero di riassumere le argomentazioni di Horgan integrandole con mie personali critiche e pensieri.

Riassumerò brevemente le posizioni dell’articolo. L’autore si presenta dicendo di essersi avventurato spesso nella meditazione – presa da varie tradizioni – e di usarla principalmente per rilassarsi. Ultimamente però, scrive nell’articolo, ci sono delle cose, che riguardano la pratica, che lo infastidiscono, pensieri di cui non si può liberare proprio mentre medita. Una sorta di meditazione sulla meditazione.

Horgan individua quindi alcuni punti su cui si concentra il suo fastidio:

  1. la meditazione è diventata una moda;
  2. chi fa ricerca sulla meditazione la pratica;
  3. non vi sono prove convincenti della superiorità della meditazione rispetto ad altri trattamenti;
  4. l’effetto benefico della meditazione si ascriverebbe all’effetto placebo;
  5. le modifiche nel cervello apportate dalla meditazione non implicano necessariamente un beneficio alla salute o al benessere;
  6. nonostante affermazioni del contrario, la meditazione non produce buoni samaritani: la meditazione è eticamente neutra;
  7. coloro che si professano come Guru, sono spesso truffatori, esaltati o psicopatici;
  8. meditare occupa troppo tempo quando uno potrebbe aiutare gli altri;
  9. ciascun meditatore scopre una verità inoppugnabile diversa e in contrasto con quella di altri praticanti;
  10. il fatto di meditare senza uno scopo è falso, meditare senza cercare uno scopo è uno scopo in sé stesso.

Prima di entrare negli argomenti dell’articolo, un breve accenno sudi me.

Sono laureato in psicologia e la mia tesi ha studiato i possibili effetti della Mindfulness (un tipo di meditazione) sul dolore cronico. Di conseguenza, le mie conoscenze sui ritrovati scientifici della meditazione si riducono all’ambito della Mindfulness e, all’interno del mare magnum che la caratterizza, ho conoscenze specifiche sul suo effetto sul dolore cronico. Detto questo, la mia conoscenza teorica è integrata da una prolungata pratica personale quotidiana. Ho quindi della meditazione una conoscenza parziale e specializzata. 

 

Per questo motivo, come potete immaginare, ho delle difficoltà nel darvi una definizione univoca della parola “meditazione”. Dal mio punto di vista si tratta di un termine molto generale che raccoglie sotto di sé un’enorme varietà di pratiche, tradizioni e filosofie, le quali hanno assunti e un’origine storica differenti oltre a riferirsi ad ambiti culturali diversi. Potrei descriverlo come un fiume, che più il termine si generalizza, più si avvicina al suo delta, dove i singoli affluenti si separano solo per poi riunirsi e separarsi di nuovo. Per questo motivo nelle pratiche della meditazione si possono trovare dei punti di contatto con altre tradizioni, che tuttavia possono essere dei fraintendimenti, o fuorvianti, o simili ma diversi nell’accostamento ad altre tecniche complementari ad una disciplina. Per darvi quanto meno una sintesi di cosa si possa trovare là fuori, almeno in relazione a quanto si studia in ambito scientifico, la letteratura distingue – senza cercare di essere esaustiva – in tre grandi tipi di tecniche di meditazione. Tecniche di meditazione concentrativa, meditazione di monitoraggio e meditazione trascendentale.

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  • Per meditazione concentrativa si intende quella tecnica di meditazione nella quale l’attenzione viene focalizzata verso un oggetto, comunemente il respiro, ma potrebbe essere anche un punto del corpo, un’immagine, il suono di una parola ripetuta (come nel mantra). Scopo di queste tecniche è di silenziare il chiacchiericcio della mente, e, in alcuni casi, anche l’esperienza estranea all’oggetto nel momento, e fino a quando, la concentrazione si mantiene.
  • Nella meditazione di monitoraggio la mente osserva l’esperienza nel momento in cui essa si dispiega alla coscienza. Scopo di queste tecniche è di coltivare una non-reazione nei confronti di stimoli esterni ed interni verso i quali generalmente si produce una reazione che dà poi come risultato un comportamento automatico. In forme più avanzate di queste tecniche non solo la mente osserva la mera esperienza corporea, ma anche la mente stessa mentre osserva, diventando così oggetto stesso di attenta e profondissima osservazione.
  • Nella meditazione trascendentale si cerca di coltivare aspetti più etici, attraverso l’espressione della compassione verso sé stessi e gli altri esseri viventi.

Sono poche le tradizioni di meditazione che utilizzano solo un tipo di tecniche “pure” per come le abbiamo descritte qui sopra, è più probabile, infatti, trovare una maggior enfasi verso alcune tecniche invece di altre. Per esempio, è possibile che per giungere alle tecniche di monitoraggio, una pratica antecedente di tecniche concentrative siano necessarie per permettere alla mente di rimanere più disciplinata, invece di correre da tutte le parti.

Il discorso di Horgan è più generico. Si rivolge insomma a tutto ciò che sta sotto questo “ombrello” che chiamiamo meditazione. Per questo motivo ritengo che un chiarimento sia ancora più necessario.

Adesso esaminiamo i singoli punti dell’articolo più approfonditamente.

The Hype Problem (Il Problema della Popolarità)

Siamo d’accordo con l’autore qua. Dopo una iniziale diffidenza nella comunità di scienziati e di operatori della salute mentale, l’interesse per la meditazione da parte della ricerca è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni. Secondo i dati pubblicati da PubMed, motore di ricerca per articoli scientifici, da circa 20 pubblicazioni l’anno sulla meditazione intorno agli anni ’90, oggi tocchiamo quasi la soglia delle 400 pubblicazioni ogni anno. Avvalorata da questa ricerca, la meditazione è sbarcata sui maggiori giornali e riviste d’opinione, nonché in televisione. In altre parole, la meditazione è diventata di moda. Da un lato trovo che questo sia un dato positivo. Significa che esiste la possibilità che più persone facciano un’attività che potenzialmente può essere loro di beneficio. D’altro canto l’eccessiva popolarizzazione della meditazione può indurre a rendere facile, qualcosa che non lo è. La meditazione, per chi intraprende il cammino, è, e rimane, una disciplina dura, costante e impegnativa.

The Allegiance Effect Problem (Il Problema dell’Effetto Lealtà)

Ci troviamo parzialmente d’accordo con l’autore. Chi studia una particolare tecnica di meditazione, che essa sia la Meditazione Trascendentale, lo Zazen o la meditazione pranica dello yoga, la pratica. Questo – come ben dice l’autore – può portare alle distorsioni del giudizio di chi studia la meditazione, a una sorta di “conflitto di interessi”. D’altro canto, rilevo, chi pratica una determinata tecnica ha una maggior conoscenza della tecnica stessa, dunque può studiarla in modo più penetrante. Ciò è rilevante perché la tecnica e la filosofia che soggiacciono a ciascuna forma di meditazione possono essere estremamente complesse e oggetto di facili fraintendimenti. L’assunto che l’autore fa in questa parte dell’articolo è che si possa ricercare in modo “obiettivo”, che cioè il ricercatore possa porre al vaglio scientifico un fenomeno osservato senza che anche le caratteristiche stesse del ricercatore influiscano sull’osservazione.

The Dodo Bird Problem (Il Problema dell’Uccello Dodo)

L’autore dell’articolo si riferisce a una review della Johns Hopkins University Evidence-Based Practice Center in cui, di circa 17.000 articoli esaminati, solo 41 vengono considerati studi di alta qualità, per una popolazione esaminata di circa 3000 soggetti. Nella review si trova che la meditazione produce un effetto medio sul dolore, e medio-basso sull’ansia, la depressione e lo stress. Inoltre i benefici non sono stati trovati superiori a nessuna terapia specifica con la quale queste tecniche di meditazione sono state comparate. Si includono in queste terapie specifiche, l’esercizio fisico, il rilassamento muscolare e la terapia cognitivo-comportamentale. Cioè, per farla breve, non si sa quanto queste tecniche siano tra loro efficaci o inefficaci. Dal mio punto di vista, se ciò fosse vero, valuterei i vantaggi che la meditazione porta rispetto a queste specifiche terapie. Ad esempio, la meditazione richiede una spesa relativamente bassa in termini monetari (pensiamo ai costi di una palestra o sessioni dal fisioterapeuta), non richiede particolari macchine (come la TENS per il rilassamento muscolare), ed incoraggia le persone ad aggregarsi in gruppi di meditazione, o sangha (pensiamo al rapporto strettamente individuale che si instaura invece tra psicoterapeuta e paziente nella terapia cognitivo-comportamentale). Quanto agli svantaggi che posso riportare circa la meditazione, questi sono certamente il tempo che richiede, le sensazioni negative che, almeno inizialmente, possono essere esperite e lo stress che può temporaneamente aumentare, invece di diminuire.

The Placebo Effect Problem (Il Problema dell’Effetto Placebo)

Secondo l’autore, il fatto che nella meditazione si nutra un’aspettativa di provare benessere, alla fine si proverà benessere. Una sorta di profezia che si autoavvera. Oppure l’effetto del cosiddetto priming semantico per cui basta scrivere una serie di parole su un foglio, o ripeterle come in un mantra (facciamo l’esempio di sinonimi di “felice”) per cominciare a sentirsi felici! Questo effetto si esprime fuori dalla coscienza delle persone che ne vengono influenzate. Oppure, ancora, un’espressione dell’effetto placebo per cui il semplice fare qualcosa per uno scopo, come per esempio un trattamento sanitario, può avere conseguenze positive (o negative, nel caso dell’effetto nocebo) sulla salute generale del paziente. L’argomentazione qui portata però mi pare debole, innanzitutto perché nasconde assunti che sono neocartesiani che vorrebbero una divisione netta tra il corpo e la mente. Se l’argomentazione è che la meditazione è solo effetto placebo, quello che si dice è che c’è un effetto che dipende solo dagli stati mentali della persona e non una cura “vera”, più oggettiva e fisica. Gli stessi studi sui farmaci tengono conto e usano l’effetto placebo (sulla cui sensibilità vi è una variazione individuale), quindi se un effetto della meditazione può essere di avere un maggior benessere e questo benessere fosse “tutto” placebo, quale sarebbe il problema? Non si sarebbe forse comunque raggiunto lo scopo?

The Brain Scan Problem (Il Problema dell’Imaging Cerebrale)

Siamo pienamente d’accordo con l’autore su questo punto. Grazie alla plasticità cerebrale qualsiasi attività prolungata, pensiamo al tennis, può produrre variazioni nel volume della materia grigia in questa o quest’altra area del cervello. Studi con la risonanza magnetica funzionale (fMRI) sulle modificazioni cerebrali prodotte dall’attività della meditazione, quindi l’aumento di volume di certe aree rispetto ad altre, non implicano necessariamente un nesso di causalità tra la meditazione, il benessere o il miglioramento di altre capacità mentali.

The Niceness Problem (Il Problema dell’Amichevolezza)

Secondo l’autore la meditazione è un’attività eticamente neutra, come l’andare a correre. Non produce quindi “persone migliori” o “più buone”, come in certi contesti dell’insegnamento della meditazione invece si ribadisce. L’esempio che lui porta è che la meditazione è parte di molte arti marziali, arti che erano appannaggio di una casta guerriera il cui prodotto finale non erano rose e margherite, bensì la distruzione del nemico. Attualmente esiste un tipo di Mindfulness, la Mindfulness Based Fitness Training (MBFT) che sta venendo insegnata nel contesto delle forze armate statunitensi per aumentare la resilienza dei soldati alle durezze del combattimento, pensiamo al disturbo post-traumatico da stress che colpisce i veterani nella guerra moderna. Qui secondo me l’autore fa un disservizio al lettore. La meditazione è, alla fine, un termine campana che raccoglie sotto di sé un’enorme varietà di tradizioni, filosofie e tecniche diverse. Mentre le meditazioni di concentrazione, dove si cerca di ottenere uno stato di profondo silenzio dal “chiacchiericcio” della mente, e le meditazioni di monitoraggio, dove si cerca di studiare la mente per come si dà nell’osservazione dell’esperienza, possono rientrare nella descrizione che ne fa l’autore, la meditazione di amorevole gentilezza (Metta) dove si augura a tutti gli esseri di essere felici e liberi dalla sofferenza, ha profonde implicazioni etiche. Alcuni autori in seno alla comunità scientifica, si chiedono, inoltre, quanto senso abbia l’estrapolare le tecniche della meditazione dal contesto filosofico e morale che le ha create, operazione che – per inciso – si è fatta nella Mindfulness. Non a caso, si è argomentato, che una definizione della meditazione come un “portare attenzione intenzionalmente, momento per momento, in modo non giudicante”, è uno stato della mente che può avere, sì, il meditatore, ma anche il cecchino mentre sta per sparare al suo bersaglio umano. Per questo l’insegnamento della meditazione viene integrato dallo sviluppo della compassione, e cioè una preoccupazione per la sofferenza altrui, unita al desiderio di alleviarla; nonché dallo sviluppo della saggezza e cioè alla comprensione della propria e dell’altrui sofferenza. Implicare che la meditazione sia un’attività eticamente neutra vuol dire negare che nel contesto dell’insegnamento della meditazione vi siano anche la compassione e la saggezza come le ho qui definite, caratteristiche della mente strettamente collegate tra loro e che – i recenti lavori di ricerca di Paul Ekman – indicano poter essere coltivabili e non necessariamente innate nell’uomo.

The Bad Guru Problem (Il Problema dei Cattivi Guru)

Mi trovo con l’autore d’accordo su questo punto. La maggior parte dei Guru spirituali di successo, arrivati in occidente, sono personaggi ambigui, truffatori nel migliore dei casi, psicopatici narcisisti nel peggiore. Nel suo libro Waking Up, di cui consiglio la lettura a chiunque voglia dedicarsi seriamente alla meditazione, Sam Harris discute lungamente delle caratteristiche che dovrebbe avere un Guru, cosa il Guru può chiedere ai propri discepoli, dove porre dei confini e come difendersi. Linee guida sulle quali mi trovo d’accordo. Qui purtroppo però vi è un dilemma. Bisogna che chi intraprende la strada coltivi un profondo equilibrio tra il suo senso critico e la fiducia da porre verso il suo maestro. Il proprio senso critico deve farci da guida in ogni momento del percorso, sapendo che forse sarà proprio questo ad impedirci di imparare davvero. Detto questo, anche se l’avere un maestro è una necessità per chiunque intraprenda seriamente la strada, è necessario sapersi proteggere perché gli abusi, o le perdite economiche, che si possono subire nel seguire un “cattivo” Guru non vanno mai sottovalutati.

The Matthieu Ricard Problem (Il Problema Matthieu Ricard)

Qui l’autore trova che sia paradossale che bisogni meditare sulla compassione per ottenere uno stato di profonda pace mentale. Inoltre si chiede com’è che serva spendere così tanto tempo per produrre questo stato, quando potrebbe essere meglio impiegato per aiutare gli altri. Personalmente non trovo il primo punto paradossale. Scopo della maggior parte delle tecniche di meditazione è di attivare una parte della mente che vede il mondo come un tutt’uno. All’interno di questo mondo allargato ci siamo noi, insieme a tutte le cose straordinarie che lo abitano. Cessiamo quindi di essere l’unico centro del nostro mondo, anzi, ad una preoccupazione verso noi stessi si sostituisce una preoccupazione più allargata per gli altri, nostri conspecifici, nonché agli animali non umani. Questa forma di deindividuazione, lungi dall’essere patologica, produce un profondo senso di pace, gioia, compassione e interesse nel benessere degli altri. Si tratta però di uno stato della mente (e del cervello) che va coltivato e che richiede una pratica prolungata e costante perché si esprima. Un senso di amore senza confini ottenibile temporaneamente – semmai forse in eccesso – con altri mezzi (si pensi alla MDMA, anche conosciuta come “ecstasy”, o alla stimolazione cerebrale profonda). Il fatto che si richieda tempo per ottenere questo senso di amore universale, non dissimile a quello provato da alcuni santi della tradizione cristiana, e che qui è trattato solo come un’altra potenzialità che la mente umana può raggiungere, serve per far sì che l’azione di aiutare gli altri non sia contaminata da una mente che pensa prima al proprio benessere che a quello altrui. In questo secondo caso, l’azione di aiuto nei confronti degli altri può avere ben altro significato, di gratificazione personale, per esempio, cosa che esulerebbe da una azione mossa da un vero senso di compassione.

The Truth Problem (Il Problema della Verità)

Secondo l’autore per alcuni praticanti, lo scopo della meditazione sarebbe la conoscenza. Il problema è, come giustamente scrive, che ciascun meditatore trova una verità diversa, spesso in contrasto con la verità di altri praticanti. Ancora qui si ripresenta il problema dell’usare la singola parola “meditazione” per descrivere una varietà di pratiche diverse. Nella Mindfulness, per esempio, scopo della meditazione è soltanto di essere consapevoli di ciò che avviene, nel momento in cui avviene. Detto questo, riconosco alla meditazione un potente strumento di conoscenza e contatto con la realtà attuale di sé. Tale conoscenza non è in alcun modo da considerarsi una conoscenza accademica ed è valida solo per il momento in cui la si esperisce. Per la Vipassana, un’altra popolare forma di meditazione da cui la Mindfulness ha preso molto, tale conoscenza è un “vedere chiaramente” lo stato in cui stiamo nel momento in cui ci osserviamo, e cioè contattare intimamente l’essenza di cosa vuol dire essere umani.

The Having No Goal Problem (Il Problema del Non Avere Alcuno Scopo)

L’autore non si capacita come, per alcuni meditatori, non ci sarebbe davvero uno scopo per meditare. La meditazione è una pratica fine a sé stessa. Il suo commento è che però il non avere un obiettivo è un obiettivo! Chi afferma di non avere alcun obiettivo, non fa che confermargli che la meditazione sarebbe una sorta di auto-lavaggio del cervello. Dal mio punto di vista, rispetto a quello che so in particolare della specializzazione interemisferica, ciò che si cerca di evocare con la meditazione è uno stato dell’essere la cui attivazione tende ad avere un carattere discreto ed alternativo rispetto a quelle strutture ordinatrici della mente (le c.d. funzioni esecutive). Tale stato non ha scopi ordinati, non giudica l’esperienza, agisce in modo parallelo e non sequenziale. Il paradosso che l’autore vede dovrebbe provocare la risata degli dèi, la sua contemplazione potrebbe rendere la sua meditazione ancora più profonda, potrebbe dargli intuizioni sulla condizione d’esperienza nella quale versiamo noi tutti.

Conclusioni

A termine di questo lungo post non posso che ringraziare l’autore per avermi concesso l’opportunità di fermarmi e valutare lo stato delle mie conoscenze sulla meditazione, conoscenze che non sapevo di avere se non quando esse sono diventate rilevanti per il discorso che fin qui ho cercato di fare. La meditazione è un termine campana, là sotto c’è un’enorme varietà di pratiche, una storia millenaria di tradizioni, una tecnologia del Sé oggi a noi disponibile per sperimentare con i confini della nostra coscienza, mentre troviamo lo straordinario nella nostra esperienza ordinaria. Dei distinguo sono necessari, altrimenti – come l’autore – si finisce per odiare la meditazione mentre la si pratica. Anche questo un paradosso in cui si sente lontana la risata degli dèi e che ci racconta, in ogni momento, chi veramente siamo.

 

* articolo scritto in copia su bottadiclasse