Immaginate di andare dal dentista per una dolorosa pulizia dei denti, quando siete da lui, venite sottoposti ad una lunghissima ora di tormenti. Alla fine di quest’ora il dentista si ferma e vi dice: “Bene, abbiamo finito. Ora puoi scegliere tra due alternative. Se scegli la prima, la nostra seduta finisce qui. Se scegli la seconda, e per farti un favore personale, ti posso somministrare altri 5 minuti di trattamento: inutile, ma solo lievemente doloroso”.
Credo di avere un’idea chiara di cosa gli rispondereste. E magari vi chiederete anche: cosa ha a che fare questo con la felicità? La mia risposta è che, non solo questo ha a che fare con la felicità umana, ma è persino il sorprendente risultato di recenti studi proprio sulla felicità.
Dagli albori della Psicologia come scienza, questa disciplina si è sempre occupata di ciò che “non va” nella mente dell’uomo. Delle patologie che la affliggono e dei problemi che ne derivano. Non a caso, la Psichiatria e la Psicologia Clinica studiano proprio queste cose, non a caso, nei paesi anglosassoni si parla di Abnormal Psychology, cioè la Psicologia dell’inusuale, di ciò che esce fuori dalla norma. Per questo ramo della Psicologia, come del resto per il padre della Psicanalisi, Freud, la terapia avrebbe dovuto “curare il male”, mentre nulla poteva essere fatto per il “mal di vivere”, in altre parole l’infelicità.
Dal dopoguerra in poi si verificò un cambiamento significativo nel trattare con ciò che è sano e ciò che non lo è. La medicina, secondo le ultime disposizioni dell’OMS, avrebbe dovuto promuovere il benessere più che la semplice cura delle malattie. In questa ottica, il movimento della Psicologia Positiva, nato ufficialmente alla fine degli anni ’90, ha promosso studi volti al miglioramento della qualità della vita umana.
Chiaramente, come ci dice il Prof. Paul Bloom della Yale University, il movimento è stato sfruttato negli anni da ogni genere di teoria ispirata alla New Age e alla Psicologia fai-da-te, la validità delle quali è difficilmente dimostrabile o quantomeno controversa. Eppure, accanto a queste, si è sviluppata anche una ricerca i cui studi sono interessanti e rigorosi.
I primi studi hanno fatto largamente uso del questionario per ottenere informazioni sulla felicità delle persone. In sostanza si chiedeva alle persone quanto erano felici in media su una scala da uno a dieci. Alcuni risultati sono degni di nota. Innanzi tutto la maggior parte delle persone pensa di essere più felice della maggior parte delle persone. Cosa che non è ovviamente possibile.
Le donne sono più vulnerabili alla depressione, ma sono anche in media più felici.
Altri studi, invece, si sono concentrati sulla differenza tra i diversi paesi. In nessun paese le persone hanno riportato di non essere felici e al primo posto nella scala della felicità vincono gli Svizzeri… mentre al posto più basso della scala, ci sarebbero gli infelici Bulgari.
Chiaramente questi studi sono da valutare con prudenza. Per capire perché, riporto un esperimento. In un primo gruppo, le persone sono mandate a fare delle fotocopie e, una volta che hanno finito, vengono sottoposte al questionario. Nel secondo gruppo, le persone sono mandate a fare le fotocopie, ma con un’aggiunta: c’è una monetina abbandonata sulla fotocopiatrice, lasciata forse da una persona sbadata, che le persone solitamente intascano; poi vengono sottoposte al questionario. Le persone del secondo gruppo risultano essere in media molto più felici di quelle del primo. E’ chiaro da questo che la felicità è influenzabile da fattori personali e circostanziali, per loro natura volatili e quindi di difficile misurazione con un semplice questionario.
Steven Pinker – riferendosi alla piramide dei bisogni umani di Abraham Maslow, affermò che siamo più felici quando siamo sani, ben nutriti, al sicuro, benestanti, colti, rispettati, non-celibi e amati. Chi potrebbe mai negarlo?
C’è però un problema. I popoli del ricco Occidente hanno molte di queste cose, se non tutte, specialmente se si confrontano con i popoli che abitano nei paesi più poveri del pianeta, eppure si osserva che questi ultimi non sono meno “felici” di quelli più ricchi. La stessa distinzione può essere fatta con le persone che vivono oggi e quelle che hanno vissuto negli anni ’20 del secolo scorso, che di sicuro non godevano dei nostri vantaggi in ambito sanitario, per esempio. Non siamo più felici dei nostri genitori, né dei nostri nonni e probabilmente i nostri figli non saranno più felici di noi. Inoltre, si osserva anche una profonda diversità individuale nella felicità. Siamo quindi di fronte ad un rompicapo che gli studiosi della felicità hanno cercato di risolvere.
Da recenti studi sembra che la felicità non cambi così tanto, cioè non sia così sensibile ai cambiamenti dell’ambiente, come invece potremmo essere indotti a credere, poiché vi sarebbe una forte base genetica per la felicità che determinerebbe il “livello” naturale di felicità, o comunque una sua più generale “portata” entro certi confini.
Pensiamo alla peggior cosa che ci potrebbe capitare – di essere per esempio paralizzati dalla testa in giù – o la migliore – per esempio vincere una grande somma alla lotteria. Si è osservato che, nonostante un’intensissima sensazione di infelicità nel primo caso, e di felicità nel secondo, dopo un anno circa, i livelli di felicità ritornano a quelli esperiti prima dell’evento. Da questo si desume che gli eventi di vita hanno un basso impatto sulla felicità “a lungo termine”, o più basso di quanto si creda comunemente, e questo perché gli esseri umani sono particolarmente inefficaci nell’affective forecasting, cioè nella capacità di prevedere i nostri stati emotivi nel futuro. In generale, quando pensiamo alla nostra felicità futura, sottovalutatiamo l’impatto delle cose irrilevanti, delle piccole cose, come il trovare una monetina per terra.